Ci sono posti che esistono soltanto nel nostro immaginario. E la comprensione che ne abbiamo è soltanto una proiezione parziale che non riesce minimamente a riconsegnarcene la percezione emotiva. Per questo motivo è necessario possederne fisicamente la conoscenza. Non leggerne, non ascoltarne il racconto, non osservarne le fotografie. È indispensabile andarci, materialmente. Entrarci. Occuparne lo spazio. Respirarne l’aria. Ascoltarne il silenzio. Lasciare che il luogo si faccia strada nella nostra anima. Soltanto così saremo in grado di comprenderne davvero il significato. Il bunker antiaereo di Dalmine è uno di questi luoghi. Possiamo soltanto fantasticare su come potesse essere fatto senza, probabilmente, riuscire a comprendere il sentimento di chi quelle stanze le ha occupate per interminabili minuti, eterne ore, infiniti giorni. Per un tempo che appariva non finire mai. Uno spazio sotterraneo che evoca un periodo storico terribile per il nostro Paese. Scoprire questo spazio, ascoltare le vicende umane occorse, toccare le pareti di gelido cemento di queste stanze, chiudere gli occhi e immaginare tutte le profonde paure, le opprimenti ansie, i legittimi timori di coloro che scesero correndo i centoventi gradini che li avrebbero potuti separare dalla violenza di un imminente bombardamento, per nascondersi, rannicchiandosi nel proprio dolore, terrorizzati dal pensiero di poter perdere quello che rendeva la vita bella da essere vissuta: la propria casa, i propri familiari, i propri amici. Entrare in questo luogo è un invito a farci costruttori di pace. Perché soltanto chi non ha toccato emotivamente l’insensatezza della guerra può considerarla una opzione umanamente percorribile e non ripudiarla, con determinazione e disgusto, a prescindere. Se siamo davvero il risultato della storia che ci ha preceduto, cosa ci hanno insegnato i libri e le riflessioni sul senso delle guerre legate a conflitti politici, a mire espansionistiche, a ragioni economiche?